Perchè questo viaggio?

Nell’estate del 2010 abbiamo (Daniela e Cristiano) fatto un viaggio in Ghana, alla ricerca degli effetti del nostro consumismo.

Abbiamo visitato piantagioni di cacao, miniere d’oro e la discarica di rifiuti elettronici di Agbogbloshie. Un vero e proprio ciclo terribile in cui i materiali vengono rubati a questa terra con un meccanismo crudele di sfruttamento di lavoratori e ambiente, a cui poi vengono restituiti i rifiuti, quando ormai all’Occidente non servono più.

In questo blog i nostri racconti, cliccando sulle immagini potete trovare qualche galleria di foto:

Discarica di rifiuti elettronici di Agbogbloshie:
Discarica di rifiuti elettronici di Agbogbloshie, Accra - Ghana, West Africa

Orfanotrofio di Hohoe:
Christian Orphans' Home - Hohoe, Volta Region. Ghana, West Africa

Ghana: paesaggi, volti:
Lake Bosomtwe, Ashanti Region. Ghana, West Africa

Ghana, West Africa, varie:
Tafi Atome Monkey Sanctuary

 

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Visita alla discarica di rifiuti elettronici di Agbogbloshie

Discarica di rifiuti elettronici di Agbogbloshie, Accra - Ghana, West Africa

Facciamo colazione in veranda. I tizi della guest-house sono sorpresi, ma non ce lo vietano. Mangiamo, oltre alle solite schifezze, banane, pasta d’arachidi, pane (un sacco) e frutta. Prendiamo il Lariam.
Ci mettiamo d’accordo con quelli della guest-house che se hanno bisogno della stanza possono spostarci i bagagli (pare che quella fosse prenotata da tempo).
Andiamo ad Accra e facciamo un giro lunghissimo a piedi. Ci perdiamo un po’, vediamo Indipendence Square, ci svincoliamo dai venditori di artigianato, che sono veramente molesti, per dirigerci ad Ussher Town. Visitiamo Fort Ussher, che è stato una prigione fino a metà degli anni ’90. Cade a pezzi ma è un posto malinconico e interessante. Quel furbo di Jacob non ci aveva portato la prima volta, ma è bastato contrattare un po’ col guardiano per entrare. Corriamo all’appuntamento con Mike, il giornalista con cui abbiamo preso contatto per visitare la discarica, che però si fa aspettare. Mentre lo aspettiamo, una mendicante ci racconta una storia pietosa per farsi dare dei soldi. Cristiano si innervosisce parecchio. Facciamo un giro al Makola Market e mangiamo qualcosina.
Mike arriva con una Mercedes e ci chiama col clacson. L’inizio non è il massimo, ma ci mette poco a farsi perdonare: è una persona in gamba, competente, e con un bel senso dell’umorismo. Parla un inglese estremamente comprensibile. Dice che ha fatto tardi perchè è corso a Tema ad intercettare un container appena arrivato al porto. Ci spiega che il problema esiste da circa 8 anni, e che è iniziato con poco, ma negli ultimi 5 anni è esploso. Alcuni imprenditori locali comprano in buona fede queste attrezzature provenienti dal nord del mondo senza che il funzionamento sia verificato. Trattengono e rivendono quelle funzionanti, e si liberano di quelle rotte, vendendole come attrezzature non testate, a prezzi stracciatissimi. L’acquirente porta il pezzo a casa, e se non funziona lo butta via, tanto il prezzo che ha pagato era bassissimo. C’è un giro di persone che va a raccogliere questi rifiuti per portarli in un posto, Agbogbloshie, che una volta era una laguna bellissima, ma che adesso è una discarica che, solo al ricordo, ci fa venire le lacrime.

 

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Entriamo nella discarica..

Discarica di rifiuti elettronici di Agbogbloshie, Accra - Ghana, West Africa

La discarica si trova dietro un mercato molto grande, ed è attraversata da fiumiciattoli in cui ormai non c’è più vita. L’acqua è nera e piena di bollicine, continua a gorgogliare: Mike ci spiega che è l’aria che esce dai pezzi buttati a bagno. Intorno non c’è più suolo, ma solo uno spesso strato di pezzetti di vetro, plastica e rifiuti, tutti coperti da una patina nera. Le venditrici del mercato usano carcasse di monitor come tavolini su cui appoggiare la merce in vendita. Non molto lontano dei ragazzi stanno bruciando qualcosa. Ci sono diversi falò di questo tipo, da cui si leva un fumo nero e puzzolente che il vento porta sul mercato e in città. Mike ci spiega che bruciano i cavi ed altri pezzi per recuperare i metalli. Siccome all’interno dei computer ci sono i ritardanti di fiamma, usano come combustibile gli isolanti dei frigoriferi, o, più raramente, pneumatici dei veicoli. Piombo, metalli pesanti, diossina e altri composti tossici si depositano sulle cipolle, sui pomodori, sulla carne e su tutta la merce in vendita al mercato. Tra l’altro è uno dei posti dove la merce è più economica, e dove la gente compra di più.

Discarica di rifiuti elettronici di Agbogbloshie, Accra - Ghana, West Africa

Entriamo nella discarica e vediamo subito un gruppo di bambini piccolissimi (5-7 anni) intenti a recuperare metalli. Sono pieni di tagli, soprattutto nelle gambe.

Discarica di rifiuti elettronici di Agbogbloshie, Accra - Ghana, West Africa

Se li procurano nuotando nei fiumi per recuperare i pezzi. Alcuni hanno segni in testa e sul corpo, e in generale non sembrano in salute. Uno in particolare è pieno di pustole, e, soprattutto, ha un vistoso rigonfiamento sul collo che non fa presagire nulla di buono. Dice di non sapere dove siano in genitori e di avere fame. Ci mostra anche una ferita sotto la pianta del piede, dice di essersela procurata con un vetro. I bambini dicono che vengono qui tutti i giorni, ma che a loro non piace. Lo fanno per guadagnarsi qualche soldino per comprarsi il cibo. Non ci sembrano bambini felici. L’opinione di Mike è che non arriveranno a vent’anni. Ci mostrano come lavorano: rompono a pietrate i tubi catodici per recuperare le viti e i pezzi in metallo. Hanno un cacciavite solo e lo condividono. Un altro bambino di mostra come recuperare metalli ferrosi: usa la calamita di un altoparlante, la sfrega sul terreno, e poi a mani nude rimuove i pezzi che rimangono attaccati. Poco più in là alcuni adolescenti stanno bruciando i cavi per recuperare il rame.

Discarica di rifiuti elettronici di Agbogbloshie, Accra - Ghana, West Africa

Il fumo ci fa bruciare la gola, e ci chiediamo come si sentano quelli che stanno qui tutto il giorno. Ancora più in là c’è una mandria di mucche al pascolo, dove c’è ancora un po’ d’erba. Anche loro sono abitanti della discarica, e nei giorni freddi si avvicinano ai fuochi e si immergono nel fumo per scaldarsi: chissà cosa conterrà la loro carne!
Questo è il peggiore dei gironi infernali che abbiamo visto: l’ultima tappa di una vera e propria escalation di miseria, inquinamento e disperazione.

Discarica di rifiuti elettronici di Agbogbloshie, Accra - Ghana, West Africa

Proseguiamo la nostra visita e conosciamo il migliore amico di Mike: un vecchio barbone di 75 anni che nella discarica ha costruito la sua cuccia. Vive qui, e Mike lo chiama “zio Jack”. Andiamo oltre, e ci sono RAEE e altri rifiuti a perdita d’occhio. Camminandoci sopra arriviamo ad un altro fiume, che Mike chiama “zuppa al veleno”. Facciamo un sacco di foto, curiosando quando possibile la provenienza dei pezzi. Ne troviamo uno italiano (Mita Italia s.p.a., col simbolo della Repubblica), ed uno del Parlamento americano.
Mike ci spiega che una volta questo era un luogo bellissimo e incontaminato, dove si potevano vedere anche un sacco di uccelli. Adesso ci sono poche garzette che vanno su e giù tutto il giorno in cerca di pesce che non c’è più, e che non tornerà mai più perché questo posto è compromesso per sempre.
Qua e là nella discarica ci sono delle bilance con cui viene pesato il metallo per essere venduto. Vediamo un bambino che sta concludendo una vendita; non vediamo quanti soldi prende, ma probabilmente sono una miseria.
Passiamo davanti a un gruppo di ragazzi che stanno aprendo dei compressori di frigorifero con martello e scalpello. Mike mette da parte due pezzi di monitor che vuole portarsi via per controllarne la provenienza. Cristiano ne gira uno per fotografarlo, e un ragazzo gli si avvicina urlando che per prenderlo deve pagarlo, è ha un modo di fare un po’ aggressivo. Mike interviene dicendo che quei pezzi sono per lui, e allora il tizio vuole prendersi Daniela. Un altro ragazzo, palestrato, si avvicina e vuole essere fotografato. L’atmosfera è a metà tra lo scherzo e la minaccia. Lì per lì c’è un po’ di tensione, che poi si scioglie quando Mike da’ loro qualche soldo per comprarsi dell’acqua. Quando ci allontaniamo ci chiede se ci immaginiamo come sarebbe stato andare lì senza di lui, perché ci sono anche dei ragazzi molto cattivi.  Ci dice anche che di notte è un posto molto pericoloso. Però non è niente rispetto alla situazione di queste discariche in Nigeria, dove se ti avventuri da solo sei spacciato.
Questi ragazzi ci mostrano un mucchietto di rame che hanno recuperato. Dicono che i rifiuti arrivano dai paesi occidentali. Qui vengono separati i metalli, che poi verranno rivenduti all’estero. Facciamo ancora un giro e usciamo. Siamo senza parole, e infatti, contrariamente rispetto al solito, non riusciamo ad interagire molto con i bambini. Ma sono anche i bambini che sono diversi dagli altri che abbiamo incontrato finora: non sorridono granchè, non sembrano avere molta voglia di scherzare con noi. Più tardi ci ripenseremo, e ci pentiremo di non aver fatto loro nemmeno una carezza: probabilmente non ne ricevono molte. Tra di loro ci sembrano molto solidali, sembrano delle pecorelle spaventate che si stringono insieme per farsi coraggio.
Quando torniamo al posteggio alcuni ragazzi portano a Mike dei pezzi di computer con le etichette riconoscibili. Lui da’ loro qualche soldo, e ci spiega che sta accumulando prove in un magazzino.

Discarica di rifiuti elettronici di Agbogbloshie, Accra - Ghana, West Africa

Le Nazioni Unite gli danno dei fondi per portare avanti la sua indagine, e anche l’Interpol è interessata a questo traffico. Ci spiega che per avere un’idea del fenomeno, bisognerebbe stare diversi giorni, andare a vedere il porto, le case della gente, e i negozi e le attività commerciali che si basano su questo traffico di apparecchiature usate.
Ci rammarichiamo entrambi di non avere più tempo per fare queste cose e tornare alla discarica. Non osiamo pensare all’effetto che ci avrebbe fatto vederla quando ci sono tutti i bambini: oggi è il primo giorno dopo la fine del Ramadan, e siccome qui la maggior parte è musulmana, sono tutti a festeggiare in qualche modo. Mike ci dice che l’ultima volta ha contato circa 500 bambini, che vengono qui quotidianamente.
Mike ci accompagna al Circle e ci promette di inviarci del materiale da consultare su questa situazione. Appena se ne va, scoppiamo in lacrime. Non ci dimenticheremo mai di quello che abbiamo visto e di questi bambini. Ci bruciano la gola e gli occhi. Ci puliamo mani e viso con le salviette, che restano nerissime. Facciamo i gargarismi e sputiamo: chissà quante schifezze sono finite nei nostri polmoni!
Mike ci aveva detto di aver portato lì una ragazza che è rimasta sconvolta e si chiedeva se sarebbe stata in grado di avere figli dopo quella visita: adesso ci sembra una paura comprensibile.
Dopo questo incontro, siamo veramente dispiaciuti di non aver incontrato prima Mike, che è una persona veramente in gamba, e di aver perso un sacco di tempo a fare gabu-gabu con quel furbo di Jacob.
Ci compriamo un frutto stranissimo che qui chiamano sweet apple: sembra un avocado con aculei cicciotti, ma scopriremo, a Genova, che non è un granchè: sa di chewing-gum, e ne ha anche la consistenza.
Rientriamo a Botwi, Jacob ci dice al telefono di non stare a passare da lui, che saremo stanchi. Non ce lo facciamo dire due volte. Ci facciamo una doccia molto accurata, nonostante il rubinetto sia basso, e pisci poche gocce d’acqua (e dire che siamo passati alla suite da 29 cedi!). Andiamo a mangiare il nostro fufu quotidiano, con carne di capra (testa e occhi compresi): Cristiano ingolla la pupilla senza fare una piega, e poi ne va tutto fiero! Andiamo a nanna un po’ provati, con un pensiero per i bambini che abbiamo visto oggi.
Ci chiediamo, un po’ commossi, che futuro avranno.

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Arrivo a Takoradi

Takoradi

Passiamo la giornata a Takoradi, in attesa che Edwin ci chiami per farci visitare il porto, e vedere i container di  bauxite, come ci aveva promesso. Facciamo una lunga passeggiata sulla spiaggia, entrando abusivamente anche in qualche giardino e in un campo da golf. Le onde lunghe dell’oceano ci fanno impressione. In spiaggia non c’è nessuno. Di ritorno ci fermiamo a bere in un baretto: è uscito il sole e si muore di caldo!
Vediamo passare un tizio con una roba molla in mano: lo ribeccheremo più tardi e cercherà di vendercela: scopriamo che è un “monitor lizard”, una specie di varano che deve aver ucciso per sbaglio.

Mama Africa is crying

Mangiamo al ristorante un sacco di cibo: Daniela prende red-red (fagioli e plantain fritti), Cristiano banku (palline di roba acida e appiccicosissima) con pesce piccante, che Daniela non apprezza! Dopo pranzo Edwin ci dice di passare dal suo ufficio. Fa un paio di telefonate, e scopre che non ci può far visitare il porto.
Ci lascia allora in compagnia di Mark, che ci spiega il funzionamento della ONG “Chosen souls”, di cui è l’unico stipendiato. Lavorano con bambini che vengono loro segnalati dai servizi sociali, perchè non possono andare a prenderli direttamente in strada. Danno loro un cedi al giorno se si presentano a scuola: questi li induce ad andare e riduce la possibilità che i soldi vengano trattenuti dai genitori. Al momento si occupano quotidianamente di circa 25 bambini. Scopriamo che le spese vengono sostenute in toto dalla famiglia Vanotoo, salvo qualche donazione sporadica. Scopriamo anche che ne ospitano alcuni a casa loro: per questo abbiamo visto diversi ragazzini girare per casa! Chiediamo di usare il bagno, e lui ci apre la porta, ma dice che l’acqua non funziona da due anni! E’ polverosissimo, lui si offre di andarci a prendere un secchio, ma rifiutiamo gentilmente l’offerta e usciamo.
Entriamo nel mercato e compriamo qualche tessuto, poi andiamo alla collina delle scimmie: è un boschetto appena fuori dal centro, e subito ci vengono incontro dei ragazzi che si offrono di accompagnarci dietro compenso, sostenendo che da soli non avremmo visto scimmie, perchè non si fidano di chi non ha la pelle nera. Diciamo che vogliamo provarci comunque, e infatti riusciamo a vederle, anche se un po’ da lontano!
Però in compenso vediamo dei ragni molto da vicino!!
DSC 0024

Torniamo in città e prendiamo un taxi per tornare a casa. Come gli altri giorni, ci danno la cena ma non ci considerano molto. Arrivano due ragazzi, marito e moglie, lei è incinta, con un pancione enorme. Lui, Coby, è molto socievole e si mette a chiacchierare con noi. Dice che Linda è sua suocera. E’ il primo della famiglia che ci considera. E’ un informatico, e si interessa al lavoro di Cristiano.
Domani ripartiamo, prepariamo le valige, e andiamo a nanna.

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Visita al Kakum National Park

Ci alziamo presto e mentre facciamo colazione guardiamo gli uccellini tessitori: ce n’è uno stormo proprio sull’albero vicino a noi.
Uccellino tessitore

Vediamo anche un coccodrillo piccolino sotto una passerella. Andiamo al Parco Kakum in taxi: ci mettiamo d’accordo per 25 GHc e il tassista – che non ride mai – insiste per sapere a che ora finiremo. Proviamo a dirgli che lo richiamiamo noi, ma insiste per farsi dire un’ora, e gliela diciamo.

Kakum National Park

Il parco è caro ed è una delusione, il percorso sulle passerelle è carino, ma non si vedono animali di nessun tipo, escluse poche farfalle e qualche formica (!). Da solo, non vale il prezzo del biglietto, anche se per fortuna abbiamo ottenuto lo sconto studenti. Le passerelle sono sospese abbastanza in alto, e oscillano e si inclinano quando ci si cammina. Fanno un po’ paura per il muschio e le alghe che crescono su alcune corde, dando l’impressione che siano marce e che possano rompersi da un momento all’altro. La guida però ci rassicura che la manutenzione viene fatta regolarmente!

Kakum National Park - Il ponte sospeso

Facciamo anche un giro nel bosco con la guida, che ci fa vedere degli alberi e ci parla delle loro caratteristiche. Le liane si possono lavorare con un martello e poi possono essere usate come spugne, un altro tipo di liana veniva usato per decidere se un uomo poteva prendere una donna in sposa: il padre gliela concedeva solo se lui era in grado di spezzare la liana con le braccia. Il giro comunque è una noia tremenda: non vediamo neanche un ragno, la possibilità di vedere un animale non è neanche contemplata, nonostante sostengano che in questo parco ci siano diversi mammiferi: elefanti, scimmie…

Kakum National Park - il ponte sospeso

Alla fine la guida ci dice che c’è un albero molto grande, il più grande della foresta, ma noi non lo vediamo, perchè avremmo dovuto fare un altro giro. Dircelo prima no? Prima di uscire vediamo l’albero del profumo, il cui odore intenso e tutto sommato gradevole, scaccia le zanzare.
Usciamo delusi, e per di più non troviamo il tassista. Lo chiamiamo, aspettiamo, e finalmente un altro ci dice di andare con lui, che lo raggiungeremo a metà strada. Così facciamo, e proviamo a discutere sul prezzo, ma finiamo solo col litigare per niente.
Torniamo al Cottage, facciamo un tuffo in piscina (pare che la maggior parte dei ghanesi non sappia nuotare, infatti ci sono un sacco di salvagenti), pranziamo e facciamo una passeggiata in riva al lago, per guardare i coccodrilli, gli uccelli, e i pesci: vediamo molti più animali qui che al Kakum!!

Coccodrillo!

Il ritorno a Takoradi è difficile: è domenica e ci sono pochissimi mezzi. Arriviamo fino a Cape Coast, ma da lì trovare un tro-tro sembra impossibile, alla stazione c’è una fila lunghissima. Per un posto, restiamo fuori dall’ultimo tro-tro, e allora andiamo a cercarne uno lungo la strada. Chiediamo aiuto a due ragazzi davanti a noi, ci danno qualche spiegazione telegrafica. Quando arriva il primo mezzo, però, si avventano per assicurarsi due posti, e ci fanno salire: solo all’ultimo ci accorgiamo che loro sono rimasti a terra per cedere il posto a noi! Li ringraziamo un po’ commossi!! L’ospitalità di questa gente ci sembra basata più sui fatti che sulla forma, e quando arriviamo a casa Vanotoo ne abbiamo un’ulteriore conferma.
Andiamo a nanna stravolti.

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Elmina – Cape Coast

Elmina

Partiamo per Elmina con il tro-tro. Facciamo gli ultimi due chilometri a piedi e arriviamo alla spiaggia: è molto bella, costeggiata da palme da cocco altissime. La sabbia è molto fine, il mare è mosso e c’è una bella vista sul castello. Camminiamo stando attenti a non pestare le cacche: gli abitanti qui usano la spiaggia come latrina! Attraversiamo una specie di piazza in mezzo a baracche e imbarcazioni: Elmina è un villaggio di pescatori, e molti stanno aggiustando le barche o le reti. C’è una povertà tremenda, e sporcizia ovunque, oltre alla solita fogna a cielo aperto, stagnante e putrida, che qui è quasi a livello della strada. Visitiamo il castello, che è stato il primo ad essere utilizzato per imprigionare gli schiavi in attesa di imbarcarli per l’America o per l’India. Visitiamo le prigioni in cui rinchiudevano centinaia di uomini, separati dalle donne. In ognuna di queste stanze, con finestre piccolissime, stavano rinchiuse fino a 150 persone, per due o tre mesi, in attesa della nave e non vedevano mai la luce del sole. Nella stessa stanza, senza potersi quasi muovere perchè incatenati, vivevano 24 ore su 24: mangiavano, dormivano, facevano i loro bisogni. Davanti alla prigione delle donne, c’è un cortile dove le donne venivano radunate perchè il governatore, dalle terrazze del primo piano, potesse scegliere quella che più gli piaceva e abusare di lei. Se si rifiutava, veniva legata a una palla di bronzo pesantissima per qualche giorno. Proviamo a sollevarla: pesa tantissimo, Daniela quasi non ci riesce!
Le donne che rimanevano incinte non venivano imbarcate subito, ma venivano portate al villaggio per partorire. I loro figli venivano mandati a scuola, e divennero i primi africani a frequentare scuole europee.
C’è anche una cella per i soldati che disobbedivano: ha diverse prese d’aria e i soldati venivano rinchiusi lì solo per qualche ora. A fianco, invece, c’è la cella per la condanna a morte degli schiavi che si sono ribellati: è una stanza senza finestre in cui venivano rinchiuse decine di persone. La porta non veniva riaperta fino a che non erano morti tutti. Una crudeltà atroce. La nostra guida ci fa entrare e chiude improvvisamente la porta e ci lascia dentro al buio totale. Anche se è solo per pochi secondi, il buio e l’afa sono sufficienti a darci una vaghissima idea di come potevano sentirsi i condannati.
Visitiamo anche la famosa porta del non ritorno, da cui sono stati imbarcati diversi milioni di schiavi alla volta dell’America e dell’Asia. Due terzi degli schiavi morivano in cella, mentre di quelli imbarcati, durante il viaggio poteva morirne anche metà. Ci sentiamo male, ci viene anche da piangere.
Saliamo a Fort S. Jago, sulla collinetta di fronte, ma non entriamo. Schiviamo gli innumerevoli mendicanti, e vediamo dall’altro il corteo di una cerimonia funebre. Sembra un carnevale, ma invece dei carri portano una bara su un pick-up, su cui dei percussionisti suonano un ritmo forsennato.
Torniamo indietro, e mentre ripassiamo in mezzo alle baracche un bambino di chiede di comprarlo e di portarlo via con noi. Rimaniamo senza parole. Compriamo l’acqua da un altro bambino, che ne porta una conca intera sulla testa, e gli chiediamo quanti anni ha. “Dieci” risponde, anche se a noi sembra molto più piccolo. Diamo un’ultima occhiata all’enorme “campo da calcio”, in cui si svolgono contemporaneamente diverse partite, in mezzo alle baracche su questo pezzo di spiaggia. E’ bello, e quasi surreale.
Andiamo a Cape Coast, dove è in corso il festival di Fetu Afaye. La città è paralizzata dal traffico di veicoli e di persone ovunque. Arrivando vediamo a sinistra la laguna, e a destra dei maiali sulla spiaggia che separa la laguna dal mare. Un cartello che annuncia il caffè ci convince a scendere e a proseguire a piedi: il caffè ci manca tanto! Niente caffè, scopriamo che il locale probabilmente ha chiuso il secolo scorso. In strada c’è pieno di gente che canta e che balla. Alcuni si rotolano addirittura per terra. La musica è tutt’altro che tradizionale, e soprattutto è fortissima. Sembra che questa sia una prerogativa di questo paese.
Prendiamo qualche via secondaria per evitare il casino, e arriviamo in spiaggia. Dalla spiaggia vediamo il forte e lo raggiungiamo a piedi. Anche questa spiaggia è sporchissima, ci sono bambini che fanno la cacca, maiali che razzolano, e un bambino che si pulisce con un pezzo di giornale. Lì in mezzo c’è anche qualcuno che fa il bagno, ma senza nuotare. Risaliamo lungo una stradina attraversata da una fogna: ci sono dei bambini che fanno i loro bisogni, e poco più in basso dei maiali bevono quella stessa acqua. Ci avviciniamo al castello, e per strada c’è gente che balla, alcuni si avvicinano a noi, e quando passiamo una ragazza afferra Daniela per un braccio, alcuni ci parlano con aria quasi di sfida, ma noi non capiamo, perchè non parlano inglese. Visitiamo il castello: è più grosso di quello di Elmina, e anche più recente. E’ stato costruito dagli inglesi esclusivamente per la tratta degli schiavi. Visitiamo prima la cella degli uomini, un ampio locale sotterraneo diviso in 5 stanze. In ogni stanza stavano stipate circa 300 persone. Sui muri ci sono i segni che indicano il livello raggiunto dagli escrementi dei prigionieri: ci arriva fin sopra il ginocchio. Sopra una delle stanze c’è un’apertura da cui buttavano già acqua e cibo per i detenuti. Non utilizzavano un secchio ma li buttavano giù direttamente, e i detenuti dovevano raccoglierli con le mani: questo creava competizione tra loro per la sopravvivenza. La guida spiega che alcuni rifiutavano di mangiare e si lasciavano morire di fame. Anche qui i detenuti restavano rinchiusi nei sotterranei per circa 3 mesi senza mai vedere la luce del sole. C’erano anche delle spie, che stavano vicino alle finestre ad ascoltare quello che dicevano i detenuti, e quelli che pianificavano la fuga venivano condannati a morte. Visitiamo la cella utilizzata per questo scopo: per terra ci sono dei segni circolari incisi dai moribondi con le manette. Come ad Elmina, anche qui la guida chiude la porta e ci lascia qualche secondo al buio. Siamo gli unici bianchi, e alcuni commentano: “The white man is wicked”. All’uscita gli stessi ci chiedono con ironia se siamo nervosi.
Ci fa abbastanza effetto essere qui. Visitiamo anche la cella delle donne: ci dicono che qui stavano anche con i loro figli. Dopo essere state mandate a partorire in paese, le donne venivano di nuovo rinchiuse. Vediamo la porta del non ritorno, che originariamente era molto più stretta, ma che poi è stata ampliata. Mangiamo qualcosa, facciamo un giretto al festival e poi cerchiamo un taxi, impresa non facile in questa giornata estremamente caotica!
Ma alla fine riusciamo ad arrivare all’Hans Cottage Botel: il posto è molto bello, in riva ad un laghetto pieno di pesci e coccodrilli. Ceniamo e andiamo a dormire.

 

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In giro per Kumasi

Pesce affumicato al mercato di Kumasi

Robert per colazione ci fa trovare un piatto enorme di riso con un sugo di carne piccante. Buonissimo, ma ne mangiamo metà e gli diciamo un po’ imbarazzati che non riusciamo a finirlo. Lui ci tranquillizza dicendo che i ragazzi lo finiranno molto volentieri. Infatti spuntano subito fuori e si portano il piatto in camera, tutti sorridenti.
Usciamo con Robert e andiamo a visitare la scuola che lui ha fondato insieme ad un amico: ci sono i bambini che spazzano il cortile, cioè l’aula, che si trova sotto ad un albero grandissimo. Robert ci mostra gli edifici in costruzione e quelli già in uso.
Ci dice che in paese i bambini non vanno a scuola perchè i genitori non hanno i soldi per mandarceli. Si lamenta che quelli che non ci vanno non fanno niente, non lavorano, e spesso diventano dei delinquenti, fumano e si drogano. Si lamenta anche che i genitori dicono di non avere soldi per mandare i bambini a scuola, ma poi spendono una fortuna nell’organizzare i funerali. Da poco i capi hanno fatto una legge tribale che vieta una buona parte delle spese per i funerali. Chi la viola è costretto a macellare 12 pecore: si tratta di una punizione tradizionale, che è un grosso danno e i capi hanno il potere di farla rispettare.
Poi ci accompagna in città con un autobus molto più comodo di quello tra Hohoe e Kumasi. Andiamo a visitare il mercato di Kejetia: è quello che loro chiamano il Central Market, e dicono che sia il più grande di tutta l’Africa occidentale. Più che le dimensioni a noi colpisce la densità delle merci: non c’è quasi lo spazio per camminare tra i due lati di venditori e comunque bisogna stare attenti a non scontrare i venditori ambulanti con la loro merce in testa. Facciamo qualche foto a delle signore che vendono verdura, poi ci infiliamo ancora più all’interno e arriviamo dai venditori di stoffe. Sono bellissime!! Ovviamente ne compriamo un po’. Continuiamo il nostro giro riempiendoci gli occhi di immagini e colori.
Ai bordi del mercato ci sono degli edifici e al di sopra hanno costruito delle baracche di legno con veranda sul mercato, dove sono al lavoro i costruttori di scatole di latta: si sente un martellare incessante che si aggiunge ai suoni del mercato: annunci delle venditrici, traffico, chiacchiere.. e i rumori dei venditori al lavoro: i colpi di mannaia con cui squartano pesci e pezzi di carne, le macchine da cucire, le forbici usate come campanelli dai tagliaunghie ambulanti..
Gli odori sono altrettanto forti e sgradevoli: fogne a cielo aperto, pesce e carne, freschi e secchi, spezie, detersivi e saponi, sudore e umanità!
Usciamo e chiediamo indicazioni per il centro culturale. Dopo un po’ di depistaggi vari, troviamo due ragazzine che ci accompagnano. A tutti sembra strano che vogliamo muoverci a piedi, ci dicono che è lontano, ma in realtà in 10 minuti arriviamo. Il centro è molto pulito, c’è il prato, persino i cestini per la spazzatura (saranno i primi che vediamo, in Africa!), sembra quasi di essere in un altro mondo. Visitiamo il museo, che consiste in un cortiletto quadrato con un po’ di vecchi oggetti ai 4 lati. Non sono tanto gli sgabelli a colpirci, quanto un tamburo fatto con pelle di leopardo che veniva utilizzato in guerra per seminare il panico tra i nemici: strisciando un bastoncino sulla pelle si produce un suono molto forte che sembra il ruggito di un leone.
Ce ne andiamo, anche se con quel sole verrebbe voglia di sdraiarsi sul prato all’ombra e dormire.
Chiamiamo Kwame che ci dà appuntamento davanti all’ufficio postale. Lo raggiungiamo a piedi, e aspettiamo che arrivi. Appena arriva sostiene di volervi fare un regalo, e vorrebbe comprarci un souvenir piuttosto kitsch, ma rifiutiamo. Ci sediamo ad un tavolino maffo di un baretto maffo, e ci facciamo offrire una Coca-cola (!). Poi Cristiano inizia ad intortarlo raccontando delle possibilità di collaborazione con la sua ONG e della rete di contatti in cui potremmo inserirlo. Spiega che dobbiamo poter contare sulla sua onestà, e a questo proposito cerchiamo di farci restituire i soldi che ci ha preso in più, ma non c’è verso. Lui accampa un sacco di scuse: prima dice di averli dati tutti a Robert, poi dice che una parte sono per l’orfanotrofio, poi che sono per le spese. Noi gli diciamo che non gli crediamo e cerchiamo di convincerlo a restituirci i soldi quale prova di onestà. Ma non c’è niente da fare, e allora lo minacciamo di denunciarlo, ma neppure così lo convinciamo. Siamo tutti un po’ tesi. Non crediamo veramente che ci restituirà i soldi e non abbiamo voglia di perdere altro tempo con lui, quindi gli diciamo di non farsi più vedere. Insiste per venire a parlarci la sera a casa di Robert, ma lo liquidiamo. Forse imbrogliandolo avremmo potuto farci dare i soldi, ma non avevamo il consenso su questa opzione. Siamo invece contenti di aver agito col consenso.
Ci dirigiamo a piedi alla stazione STC per scoprire che l’orario di partenza sarebbe alle 4 del mattino! Decidiamo allora di provare a trovare un tro-tro. Ci dirigiamo alla stazione di Asafo e ci informiamo. Ne approfittiamo per visitare anche quel mercato: è più piccolo e c’è molto più spazio per camminare. Vi si trovano soprattutto prodotti alimentari, ma non solo. Una signora vende vecchi giornali *italiani* impacchettati a 5 pesewas l’uno. Scopriremo più tardi che li usano come carta igienica. Su un banco troviamo anche pacchi di spaghetti provenienti dagli aiuti umanitari dell’unione europea: la scritta dice: “Prodotto non commerciabile”, ma qui non capiscono l’italiano e probabilmente se anche lo capissero non farebbe alcuna differenza.
Un capannone è dedicato alle carni e ai pesci, quasi tutti secchi e affumicati. Un donnone simpaticosi avvicina e si offre di farci da guida e spiegandoci che cosa sono le merci esposte. L’essiccazione si ottiene col calore. Ci colpiscono gli zampini di mucca tagliati a metà, e soprattutto il grascutter, che, da quanto abbiamo capito, è un enorme topone, una specie di nutria. Qui è disponibile in versione secca: aperto, spianato e tenuto così da bastoncini di legno. Sembra un aquilone di cuoio, ma la signora dice che una volta cotto diventa morbido e buonissimo. La nostra esperienza non conferma!!!! Lei vende zampini di maiale provenienti dall’Olanda. Dice che quelli locali sono troppo piccoli.
Più avanti vedremo di cosa si nutrono i maiali locali, e siamo contenti che quelli vengano dall’Olanda! Assaggiamo ananas e cocco fresco: è morbido, ed ha una consistenza simile a quella dell’uovo sodo. Il sapore è delicato e fresco, ed è divertente vedere come te lo servono: prima ne tagliano la sommità per permetterti di berne il succo. Poi lo spaccano in tre, e con un pezzo di buccia legnosa ne scavano la polpa. Tutti i tagli li fanno a colpi di machete. Assaggiamo anche uno spiedino di frattaglie di cui non riusciamo a farci spiegare la natura. Il venditore lo ricopre di una spezia arancione: non è terribile!
Torniamo a Onwe e contrattiamo il prezzo con un tassista per farci accompagnare al lago Bosomtwi. Il posto è incantevole: un lago rotondo in mezzo a colline ricoperte di vegetazione. Abbiamo ancora qualche ora di luce prima del tramonto, e ne approfittiamo per fare una passeggiata. Cercano tutti di spillarci dei soldi, anche i bambini, ma ormai siamo bravi a liberarci dei seccatori. Troviamo un punto in cui l’acqua è pulita, e siamo tentati di fare il bagno, ma un guscio di lumaca di spaventa e ci fa desistere: allarme bilharzia!!
Mentre camminiamo in mezzo all’erba, ci accorgiamo di esserci riempiti i pantaloni di pallini verdi appiccicosi. Strane piante africane!
Le barche dei pescatori non sono altro che tronchi tagliati a metà per il lungo. Per spostarsi non usano remi, che in questo lago sono un tabù, ma tavolette che tengono con le mani. Uno di loro ci urla di non fargli fotografie.
L’atmosfera è strana: c’è molta pace, un silenzio che non abbiamo quasi mai trovato, sembra quasi di essere su un altro pianeta rispetto a prima. Poi però spuntano dei bambini, e anche loro ci danno l’impressione di essere poveri. Sembra che la vita di queste persone ruoti intono al lago. Qui fanno tutto: pescano, si lavano, lavano i figli, giocano. Probabilmente qui fanno il bucato e anche i loro bisogni. Prima di andare via lasciamo 2 GHc ad una sedicente organizzazione ambientalista che dichiara di raccogliere fondi per piantare alberi per contenere l’evaporazione, anche se in realtà è tutto verdissimo. Abbiamo perso di vista il tassista e mentre un bambino va a chiamarlo, un rasta viene a cercare di venderci qualcosa. Il tassista torna e prova a mettere in moto. Dopo un po’ di tentativi l’auto ci stupisce e parte. In salita arranca, ma non si può pretendere di più da un mezzo il cui contachilometri è fermo a 400mila chissà da quanto! Facciamo qualche foto per strada, e contempliamo la foresta – c’è verde a perdita d’occhio, senza costruzioni umane – mentre torniamo a casa.
Usciamo a cena con Robert sempre al solito posto e poi andiamo a trovare una sua amica: ci fanno sedere nel corridoio di accesso ad un cortile, tutti dallo stesso lato, a prendere il fresco (è l’unico punto dove c’è un po’ d’aria). Sono strani, stanno lì quasi senza parlare. Dopo pochissimo andiamo via, e la donna viene con noi. Non ha ancora mangiato e Robert vuole offrirle la cena. Li lasciamo soli, e andiamo a provare a fotografare le stelle. Non sappiamo se ci sia del tenero, o se il nostro amico sia uno che aiuta tutti. Forse tutti e due! Prima di andare a dormire facciamo quattro chiacchiere con degli amici del nipote di Robert: ci spiegano che vogliono andare all’università, e che però dopo la scuola superiore devono aspettare un anno prima di ottenere un documento per essere ammessi all’università. Ci colpisce che, soprattutto Alex, sembri smanioso di parlare con noi, e sia dispiaciuto che stiamo già per ripartire.
Ma noi siamo distrutti, come al solito, quindi ci scambiamo i recapiti e andiamo a nanna.

 

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Visita alla miniera d’oro di Kenyase N°1

Miniera d'oro di Kenyase N°1
Alle 6,30 facciamo colazione con pane e margarina, cappuccino istantaneo Nestlé (!) e uova con le cipolle. Robert ci offre anche una marmellata di albicocche fatta a Dubai, piena di aromi, e ci dice che qui la marmellata è molto costosa e che in Ghana non viene prodotta perchè non hanno le attrezzature. Capiamo che lui ha buone disponibilità economiche. Ci racconta infatti di aver lavorato per tanti anni in Germania.
Alle 7 partiamo con Boat, la guida. Ci sembra subito che la guida voglia fregarci quando paghiamo il biglietto del trotro: ma ormai ci siamo fatti furbi, e chiediamo ai nostri vicini di sedile quanto costa il biglietto, e diciamo chiaramente alla guida di non fregarci. Dopo un viaggio di circa 2 ore (da Kumasi) arriviamo a Kenyase N°1, a nord-ovest di Kumasi. Ci infiliamo in una stradina in mezzo agli alberi che conduce alla miniera.
Il sentiero costeggia una strada sterrata che a un certo punto diventa una trincea fangosa. C’è molta gente in giro, che va avanti e indietro in quella che sembra una stradina in mezzo al nulla. In realtà arriviamo ad un’enorme radura deforestata e piena di spazzatura all’inverosimile: il sole è fortissimo e anche i rumori dei motori, così come il canto lamentoso del muezzin, diffuso da un altoparlante che ci accompagnerà per tutta la nostra visita, (interrompendosi solo perchè a un certo punto gli scappa da ridere!!)
Ci sentiamo addosso gli occhi di centinaia di persone: due bianchi in questo posto non passano inosservati!
Veniamo invitati a sedere sotto un albero (l’unico superstite della zona) vicino a due costruzioni di fango e bambù seccate dal sole. Aspettiamo che arrivino i responsabili. Ci sentiamo un po’ a disagio e un po’ minacciati: le persone intorno a noi ci guardano ma non sembrano molto amichevoli. Probabilmente si stanno chiedendo cosa ci facciamo qui!!
Finalmente arriva il responsabile ed entriamo. Ci porta sotto un tendone – ce ne sono molti – e ci spiega che non sa chi siamo e ci chiede cosa siamo venuti a fare. Glielo spieghiamo e ci dice che va bene ma che non possiamo fare foto. Ci spiegano che alcuni sono già andati per cercare di fare un documentario e non hanno evidentemente gradito la cosa. La nostra guida è più di intralcio che d’aiuto, quando ci mostrano le cose si mette davanti, e non è in grado di spiegare granchè, si limita a ripetere quello che ci dicono gli altri. Iniziamo il nostro giro e siamo un po’ innervositi. Visitiamo diversi pozzi perchè di questo si tratta: sono buchi di circa 1 m x 1 m, quadrati e profondi tra i 100 e i 300 piedi. Sulle pareti del pozzo c’è una gabbia (così la chiamano) di puntelli di legno che servono anche da scaletta. Dalle pareti del pozzo partono dei tunnel orizzontali che, secondo la descrizione che ci fanno, sono poco più che cunicoli in cui si striscia.
Quasi tutti i pozzi sono sormontati da una carrucola per tirare su  secchi di materiale. Ai lati dei pozzi sono ammucchiati cumuli di materiale aurifero, coperti da teli di plastica e guardati a vista. Ci regalano due pezzi di minerale e ci spiegano che un cumulo appartiene a circa 100 minatori, che alternano turni di 24 ore di lavoro e 24 ore di riposo. Il bottino viene spartito in 3 parti uguali: 1/3 al proprietario del terreno, 1/3 allo sponsor, la persona che ha pagato i lavori, e l’ultimo terzo viene diviso tra tutti i minatori. Un minatore un po’ più anziano e in grado di parlare inglese ci spiega il processo: prima si scava il pozzo e lo si consolida con le gabbie di legno. Il pozzo si restringe man mano che scende. Usano il martello pneumatico e quello a mano e il materiale di scarto viene depositato più lontano. Ci fa vedere un pozzo molto profondo e urla ai minatori in fondo di farci vedere la luce con la torcia. E’ di una profondità impressionante. Ci chiedono se vogliamo scendere ma non ce la sentiamo!!
Ci dicono ridendo che “There’s no safety”, “non ci sono norme di sicurezza”. Ad esempio, ci fa notare che non usano il casco, ma al limite un berretto di lana!
Mano a mano che scavano, illuminano il muro con la torcia: se c’è oro, lo vedono brillare e di solito significa che lì c’è una vena e bisogna scavare in orizzontale. Chiediamo se i pozzi possono collassare, ci dice che li fanno crollare apposta una volta che sono esauriti. Non accenna ad incidenti, ma noi sappiamo che in realtà succedono.
Ci spiega invece come usano l’esplosivo: fanno un buco rotondo nel muro, e vi inseriscono un candelotto di plastico. Riempiono poi gli spazi con frammenti di granito in modo che sia ben stabile, perchè altrimenti la roccia non si spacca. Inseriscono il detonatore e ad esso attaccano una miccia. Ci fa vedere tutte queste attrezzature. E’ compito del “blastman” svolgere questa operazione. Per salvarsi deve essere veloce a risalire, oppure fare in modo che la combustione della miccia sia lenta. A questo scopo un altro minatore spiega che usano delle striscioline di gomma, che brucia lentamente. Ci dice che questo trucco è tipico di quel posto, è il know-how acquisito con l’esperienza. Prima di andarcene ci chiedono se vogliamo comprare dell’oro e ce ne offrono un sacchettino, che rifiutiamo ridendo.
Le pietre estratte vengono frantumate in un mulino con una macina. Ci spiegano che ce ne sono di due tipi: uno più fine e uno più grezzo. Noi ne vediamo solo uno, non sappiamo di quale tipo si tratti, ma vediamo che ci lavorano due bambini: uno spara la ghiaia e l’altro la carica. Ci rimaniamo un po’ male. Dalla macchina esce sabbia mista ad acqua e va a finire in delle vaschette. Da lì, a mano, viene raccolta e mischiata al mercurio. L’amalgama di mercurio e oro viene separata dalla sabbia, forse a mano. Poi ci spiegano che filtrano l’oro ma non capiamo bene come. Parla di “carta delle sigarette”. In questa fase della lavorazione, lavorano anche le donne; ne vediamo alcune impegnate a setacciare la sabbia.
Quando trovano acqua, la pompano fuori. Con un altro tubo pompano giù aria fresca.
La guida che ci accompagna è uno sponsor, e ci parla dei guadagni: con un investimento di 35.000 GHc si possono guadagnare in 3/4 mesi tra i 100mila e i 600mila GHc, di solito si raggiungono i 300mila. Ci spiega che è un gioco in cui si vince o si perde, ma in quest’area c’è talmente tanto oro che è praticamente impossibile non trovarne. Noi gli facciamo credere di essere interessati all’idea di diventare sponsor. Lui ci porta a vedere i generatori, e poi ci fa parlare con il proprietario del terreno, che vuole i nostri contatti, e che ci spiega che ci sono molti modi di contribuire, o come dice lui, di aiutarli. Non gli diamo troppa corda, e lo salutiamo lasciandogli un numero di telefono sbagliato.
Appena ci siamo allontanati facciamo qualche foto. Non visitiamo le miniere industriali: sia la guida della miniera sia Boat ci dicono che non è possibile, e che oggi sono chiuse. Non sappiamo se è vero, ma non c’è verso di smuoverlo. Rientriamo a Kumasi e andiamo allo zoo. Paghiamo il biglietto solo per noi, lasciamo fuori la guida e ci godiamo un po’ di privacy.
La cosa più interessante dello zoo è una colonia di pipistrelli enormi, che stanno appesi e strepitano di continuo. Vediamo leoni, facoceri, scimmie di ogni tipo, serpenti tra cui una vipera con la testa grossa come un pugno! Tartarughe, coccodrilli, aquile, pappagalli e struzzi, dromedari. Le scimmie ci fanno un po’ pena perchè sono da sole. Appena stiamo per uscire si mette a piovere fortissimo e aspettiamo sotto una tettoia che smetta. Ci vorrà più di mezz’ora. Daniela soddisfa la sua curiosità di vedere un acquazzone africano!
Torniamo a Onwe, liquidiamo la guida e gli diciamo che domani gireremo da soli; lui non sembra molto contento, ma non insiste. Robert ci porta a mangiare il fufu nello stesso posto di ieri. Per la gioia di Daniela c’è di nuovo il pesce di fango, che ha un gusto fortissimo e sa un po’ di marcio!!
Andiamo a dormire come sempre stanchi morti. I letti africani sono cortissimi, o noi siamo fuori misura!

 

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Kumasi

Arriviamo al  bus per Kumasi verso le 2 di notte, e ritroviamo le nostre camicie che ci tenevano il posto, siamo un po’ sollevati. L’atmosfera però è inverosimile, e l’attesa ci sembra senza senso. Non ci spieghiamo perchè non permettano di comprare i biglietti in anticipo e arrivare un attimo prima della partenza. Un ambulante ci vende un panino ma non c’è verso di fargli capire che ci vorremmo qualcosa dentro. Ce ne mangiamo un po’ subito.
Sull’autobus c’è un odoraccio di umanità: di puzze ne abbiamo sentite già tante, ma questa è nuova. Alla partenza scoppia una lite nei sedili posteriori. La gente urla e si contende il posto. Dopo pochi minuti di viaggio l’autista si ferma in mezzo alla campagna. Non capiamo cosa dice, ma sembra che li minacci di non ripartire fino a che non ci sia silenzio. La scena è assurda: un pullman fermo in mezzo alla campagna africana, alle 3 di notte, fuori è completamente buio, e dentro c’è pieno di gente che urla, e noi non capiamo una parola!!
Finalmente si calmano e dopo un altro po’ di castigo (attesa) il pullman riparte.
Il viaggio è interminabile, e i sedili sono scomodissimi, però il panorama (di giorno) merita. Il pullman fa un sacco di fermate, a volte anche lunghe. Ne approfittiamo per sgranchirci le gambe. Alla prima fermata, i WC sono fatiscenti, e Daniela non osa entrare: la puzza si sente da chilometri di distanza. Cristiano si fa coraggio. L’interno è scuro e un muretto divide il locale in quelle che in Europa sembrerebbero due docce. In quella più lontana dalla porta un uomo seduto sta facendo il bucato in un secchio, e fa segno di pisciare nell’altra. Sul fondo non c’è un water o una turca, ma solo piastrelle e poi lo scarico di una doccia. Vomitevole.
Daniela invece la fa a Nkwakwaw, un po’ dopo, in una latrina senza tetto. I muri sono bassi e dentro c’è una canaletta lungo quasi tutto il perimetro, dove le donne urinano tutte contemporaneamente. Daniela aspetta che sia vuoto. Alla fine c’è anche un secchio con dell’acqua per lavarsi le mani. Che lusso!
Nel frattempo un cieco ci intrattiene cantando una nenia davanti alla porta dell’autobus chiedendo l’elemosina.
Chiamiamo Kwame Anane e lo facciamo parlare con il mate, il ragazzo del pullman. Si mettono d’accordo ma Kwame ci richiama comunque e ci ansia un po’. Percepiamo un po’ di ansia di trattarci bene, quasi troppa.
Ci viene a prendere all’arrivo e ci porta da un amico che ha un ufficetto in cui fa video. Ci fidiamo e gli paghiamo: 40 cedi per il suo impegno e 140 per vitto e alloggio in famiglia.
Ci presenta un tizio un po’ rimbambito che sarà la nostra guida e ci accompagnano a cambiare (ma non riusciamo a cambiare le banconote da 1$) e poi dalla famiglia che ci ospiterà. La casa è bella ma in un paese (Onwe) molto lontano dal centro. Il nostro ospite è Robert, una persona squisita che si preoccupa subito di nutrirci. Ci lasciano riposare un po’ perchè siamo distrutti. Alle 19 arriva la guida per mettersi d’accordo per l’indomani, e trattiamo il prezzo: arriviamo a 30 cedi più i trasporti per accompagnarci due giorni alle miniere e in città.
Al di sotto di questa cifra vuole farsi pagare il pranzo. Usciamo con Robert che ci porta in paese per mangiare: ci infiliamo al buio in mezzo alle case, ci sono frotte di bambini ovunque che ci salutano urlando “Obruni!” che vuol dire “uomo bianco”. Come ci hanno insegnato, noi rispondiamo “Bibini” che vuol dire “uomo nero”, e si può usare anche per le donne.
Entriamo in quella che crediamo essere una casa, ma che in realtà è un cortile circondato da abitazioni. Robert ci spiega che è mancata la luce da qualche giorno, infatti è completamente buio, ma ci sono diverse persone, qualcuno dorme per terra, qualcuno cucina, qualcuno  mangia, una donna allatta, un’altra mangia a seno nudo.
Robert ci dice che lì vive sua madre, e lui sembra molto in confidenza con tutti: recupera dei panchetti, uno fa da tavolino. Ci portano un secchio d’acqua per lavare la mano destra, e due pentoline; una contiene yam e plantain bolliti, l’altra palava sauce, fatta con le foglie di cocoyam. E’ molto buono e nutriente, e Robert ci spiega che i plantain contengono ferro e zinco (nei semi) e lo yam carboidrati. Mangiamo illuminati da una torcia. Mentre torniamo a casa Robert ci dice di aver preso da Kwame 80 cedi anzichè i 140 che noi abbiamo pagato, e noi ci arrabbiamo parecchio. Robert invece non si inquieta, e ci rassicura che comunque farà del suo meglio per farci stare bene. Andiamo a dormire stanchi morti.

 

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Tafi-Atome Monkey Sanctuary e ripartenza da Hohoe

Tafi Atome Monkey Sanctuary
Andiamo al Tafi-Atome Monkey Sanctuary. Ci mettiamo un po’ a trovare il tro-tro ma poi va tutto liscio. Alla fermata ci accolgono due moto-tassisti: visto che ci chiedono poco, accettiamo. Ci fanno salire, senza casco. La strada è sterrata e abbiamo un po’ paura ma è comunque piacevole stare all’aria aperta.
Arrivati al paesino, andiamo alla ricerca delle scimmie insieme alla guida Emmanuel, che ci spiega anche il funzionamento dell’eco-turismo in quel villaggio.
Dopo aver girato un po’ finalmente Emmanuel le trova e ci chiama. Fa un verso stranissimo per chiamarle!
Abbiamo delle banane: le teniamo strette nel pugno per farci salire le scimmie sul braccio. Sono molto simpatiche!
Torniamo al villaggio e vediamo un tessitore tradizionale di kente. Un gruppo di scimmie nel frattempo è arrivato vicino alla reception. Ovviamente, dopo che siamo andati a cercarle per tutta la foresta!!
Trattiamo coi mototassisti e poi partiamo alla volta di Kpando. E’ un viaggio lungo e bellissimo, che sarebbe impossibile fare in Europa! Facciamo molte foto. Prendiamo un taxi per il porto, il tassista ci frega, ma è poca spesa. Il lago Volta è molto bello, e il panorama ci lascia senza fiato. Non è un luogo turistico, c’è un piccolo mercato, ma tutti sembrano molto poveri.
Ci sono dei pescatori e alcuni cercano di venderci la tilapia fresca. Non spremmo come cucinarla, quindi rifiutiamo. Ci godiamo un po’ la vista e poi ripartiamo. Torniamo in taxi fino a Hohoe. Il tassista dice che sposerebbe Daniela, se non fosse già presa!
Ceniamo con i bimbi e stiamo con loro mezz’oretta. Sembrano molto dispiaciuti per la nostra partenza, e anche noi lo siamo! Ci scappa qualche lacrima quando ci cantano una canzoncina di addio.. ma ormai si parte!
Abbiamo la sensazione di essere veramente consumisti: quando qualcosa non va lo cambiamo, e lo buttiamo. All’orfanotrofio c’è un gattino con le zampe posteriori paralizzate per una rottura: se le trascina dietro come pesi morti. Fa molta pena, ci viene da pensare che in Italia lo avremmo già soppresso. Ma qui c’è posto anche per lui, e magari vivrà una vita felice. Forse per qualcuno anche questi bambini sono uno scarto che non vale la pena di recuperare, ma ora sappiamo che non è così. Ce ne andiamo col magone.
Il nostro autobus per Kumasi partirà alle 2 di notte, ma non capiamo perchè, non è possibile prenotare il posto: bisogna presentarsi presto (alle 19) e fare la fila per comprare il biglietto.
Inizia quindi una nottata delirante, in cui cerchiamo di prenotare l’autobus, salutiamo Jojo, andiamo all’internet cafè a cercare di copiare le foto e non ne veniamo a capo, fino a che Nicholas ci porta le chiavi di una stanza vicinissima al centro dove dormiamo (male) fino all’una e mezza e poi partiamo per il lungo viaggio fino a Kumasi.

 

 

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